giovedì 11 dicembre 2014

Podemos, ovvero quello che doveva essere il MoVimento 5 stelle

Due movimenti anti-casta, due leader carismatici, due Paesi attanagliati dalla crisi economica. Una origine comune ma destinazioni diverse, quelle di Podemos in Spagna e del MoVimento 5 stelle in Italia, due forze politiche recenti ed inconsuete nel panorama politico dei due Paesi che ne sono divenute le maggiori rivelazioni elettorali. Podemos, appena pochi mesi dopo la sua nascita avvenuta lo scorso febbraio, ha ottenuto l'8% alle elezioni europee ed ora è dato come primo partito secondo i sondaggi. Il MoVimento, un po' più vecchiotto, fondato nel 2009, ha conosciuto il suo "boom" alle ultime elezioni politiche del febbraio 2013, ottenendo il 25%. Ma ora la musica sta cambiando per quest'ultimo.

Se la formazione di Pablo Iglesias sta vivendo il suo migliore momento, ciò non si può dire per la creazione di Beppe Grillo, che è reduce da una sonora batosta elettorale alle ultime elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, e sconta contestazioni dalla base e divisioni interne. Storia di un declino prevedibile. Eppure il MoVimento poteva davvero essere quella rivoluzione nella politica italiana, quell'«apriscatole» che doveva smascherare e poi stracciare tutti i privilegi della casta, quel nuovo modo di fare politica, quella nuova idea di democrazia partecipativa che opera grazie alla rete, o almeno esserne un onesto tentativo. Invece no. La sbandierata democrazia diretta di Beppe Grillo si è trasformata nella tirannia di un capo-popolo che ha utilizzato l'agorà digitale come un plebiscito per l'approvazione di decisioni già prese (basti pensare che tutte le votazioni per espellere parlamentari alla fine hanno visto questo esito e sul sito del MoVimento non è possibile la presentazione di proposte di legge da parte degli iscritti).

Podemos invece sembra essere quel cambiamento. Sembra essere quel ciclone anti-casta e anti-privilegi, soprattutto per il fatto di essere una evoluzione del movimento degli indignados. Sembra anche essere quel nuovo modo di fare politica, inclusivo e partecipativo, che coniuga le votazioni web con l'attività dei più tradizionali circoli territoriali. In questi casi Podemos può dimostrare di avercela fatta rispetto al MoVimento, suo corrispettivo italiano. Una cosa importante però, oltre all'attuale riscontro di consensi, differenzia le due formazioni politiche. Podemos è apertamente ed esplicitamente un partito di sinistra. È stato messo in piedi da un documento firmato da intellettuali della sinistra spagnola e non si esclude per il futuro una alleanza con Izquierda Unida. 

Il movimento di Beppe Grillo invece ha cercato la strada della distinzione assoluta dall'attuale classe politica, intraprendendo quel tentativo di essere "oltre", ma finendo invece per smarrire se stesso e tantissimi sostenitori.  Nato con posizioni fondamentalmente di sinistra (le battaglie ambientali, il pacifismo, l'idea di decrescita e di democrazia dal basso) ha finito col solleticare la pancia della destra xenofoba (si vedano le posizioni sull'immigrazione che dividono internamente il MoVimento) pur di racimolare voti facili. Forse se fosse stato più fedele alle origini e meno accentrato nelle decisioni, il MoVimento sarebbe potuto essere il Podemos italiano, che convince i suoi sostenitori e mira al governo. Ma forse è meglio dare tempo a questa nuova entità politica spagnola per confermarsi e cercare di non deludere tutte le aspettative. In fondo non hanno ancora dimostrato niente di eccezionale. Come il MoVimento 5 stelle. 

domenica 16 novembre 2014

Ma i rifugiati non sono immigrati. Tutto il brutto che c'è dietro la rivolta di Tor Sapienza

Possiamo anche prendercela con gli immigrati. Mica vengono tutti in Italia a cercare un lavoro dignitoso e affrancarsi dalla povertà. Alcuni sono qui anche per delinquere, anche se la percentuale di delinquenti italiani e stranieri è pressoché la stessa. Possiamo anche pensare ad un inasprimento della politica migratoria e quindi parlare di restrizione agli ingressi e alla permanenza, di ridefinizione delle quote eccetera, come d'altronde è avvenuto con la legge Bossi-Fini. Sono posizioni perfettamente legittime e in teoria più che condivisibili, a patto che vengano rispettati i diritti fondamentali delle persone.

Ma quando parliamo della questione di Tor Sapienza non stiamo parlando di semplici immigrati. I residenti nel centro di prima accoglienza di viale Morandi sono 72 persone, 36 delle quali minorenni, richiedenti asilo in attesa che la loro posizione venga esaminata. Stiamo parlando quindi di rifugiati, il cui status è disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. I rifugiati sono coloro che emigrano non solo per sperare di trovare una vita migliore, ma soprattutto perché perseguitati dal loro stesso Paese di origine per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a gruppo sociale o opinioni politiche. Trattasi di persone che hanno bisogno di una certa protezione, una protezione che deriva da norme del diritto internazionale.

Di quartieri periferici e disagiati con problemi di integrazione ce ne sono a Roma e in tutta Italia,  ma di situazioni di aggressione ad un centro rifugiati non se ne sente in nessun'altra parte del mondo. Sicuramente la convivenza tra italiani e stranieri non è stata facile e non può essere facile se le istituzioni e le autorità non la gestiscono meglio. Ma è praticamente sorprendente assistere al triste spettacolo dell'odio razzista, perché di questo si tratta. Si trattasse di proteste per condannare determinati episodi di delinquenza da parte degli stranieri del centro, il tutto sarebbe più comprensibile e giustificabile, ma agli stranieri si vogliono addossare tutti i problemi del quartiere Tor Sapienza, un quartiere che da tempo vive una situazione di lontananza e abbandono da parte dell'amministrazione comunale, così come tante altre zone periferiche romane.

La nota preoccupante è che c'è proprio qualcosa che non va se centinaia di persone se la prendono con gli ospiti di un centro rifugiati che per la maggior parte sono minorenni che forse non sanno nemmeno perché sono lì e da dove vengono. A chi imputare quindi le colpe di questa degenerazione? Certo i richiedenti asilo angeli non sono, e se sperano di poter ottenere protezione dallo Stato italiano faranno bene a rispettarne le leggi e a non creare disordini. Certo l'amministrazione poteva trovare un posto migliore dove allocare il centro e garantire magari quella sicurezza e quella cura del quartiere che i cittadini di Tor Sapienza non si vedono garantita. Ma sicuramente è da deplorare il comportamento di tutti quelli che vogliono cavalcare il disagio sociale di una zona difficile per criminalizzare lo straniero e gli immigrati in genere, nel tentativo così di poter risolvere ogni tipo di problema. No, questo non è ammissibile.

giovedì 6 novembre 2014

"No, you can't": il sogno obamiano è giunto al capolinea

Non è insolito perdere le elezioni di midterm per il presidente americano in carica. Capita quasi sempre, e si contano solo poche eccezioni nella storia, come quelle di George W. Bush e Clinton. Non è nemmeno un dramma per la tenuta politica dell'esecutivo: sappiamo che la forma di governo statunitense, di tipo presidenziale, assicura sempre il completamento del mandato ma sappiamo anche che nonostante brutte batoste ai midterms, molti presidenti sono stati rieletti alle presidenziali di due anni dopo. E questo è successo anche ad Obama. Ma questa volta il significato delle elezioni di midterm era diverso. Non ci sono più elezioni presidenziali da vincere fra due anni; ci sarebbe invece un obiettivo ben più importante per Obama da centrare al termine del suo secondo mandato: quello di lasciare il suo segno, la sua eredità al popolo americano. Di realizzare quel cambiamento che aveva promesso.

La crisi di popolarità che attraversa il primo presidente afro-americano nella storia degli USA aveva già anticipato questa débâcle elettorale. Ciò indica che l'America è stanca di Obama, si è risvegliata dall'ubriacatura successiva alle elezioni che lo hanno portato alla vittoria nel 2008 e sta già guardando avanti, in una direzione che non per forza è quella repubblicana, anzi, molto probabilmente di nuovo democratica, vista la fortissima candidatura di Hillary Clinton, ma sicuramente una direzione  post-obamiana. Eppure Obama non ha governato male, tutt'altro: finora il suo operato si può dire sia stato più che soddisfacente. L'economia è tornata a riprendersi, la disoccupazione è calata, e qualche milione di americano in più può contare su una assicurazione medica grazie all'Obamacare. Per quanto riguarda gli esteri da quando c'è Obama non ci sono più invece Osama , Gheddafi e Ahmadinejad, anche se il mondo lì fuori non è molto più sicuro date le nuove minacce che incombono, vedi l'IS. Il problema è che "più che soddisfacente" per Obama non basta.

Obama ha deluso. Ha deluso forse perché erano troppo alte le aspettative nei suoi confronti. Parecchie, delle promesse che aveva fatto, non sono state mantenute. Guantanamo è ancora aperta, la rivoluzione della green economy non c'è stata, la riforma sull'immigrazione non è arrivata e le disuguaglianze in America sono ancora forti. Ed in questo modo un presidente non può lasciare il segno. Queste elezioni potevano essere cruciali per la svolta obamiana. Sgombrato il campo dalle preoccupazioni per una ri-elezione, vincendole il presidente avrebbe potuto utilizzare la maggioranza al Congresso per approvare delle vere e coraggiose riforme. Obama però è arrivato stanco e sfibrato a questo appuntamento, sotto il peso delle sue stesse promesse. Ora, con entrambi i rami del Congresso contro, sarà quasi impossibile per lui dimostrare di non essere esso stesso una grande promessa mancata, una grande illusione, una speranza spesa invano. No, Obama, you can't. Not anymore. 

giovedì 23 ottobre 2014

Il grande balzo in avanti dei diritti civili

Non solo Jobs Act e 80 euro. L'attuale dibattito politico e il percorso delle riforme del presidente del Consiglio Matteo Renzi stanno prendendo strade diverse da quelle che percorrono gli insidiosi tracciati di economia e lavoro, riforme inevitabili e necessarie vista la grave situazione in cui ci ritroviamo. Quasi inaspettatamente, però, il governo ha anche deciso di premere l'acceleratore su altri temi e in altri ambiti, altrettanto spinosi e ostici: i diritti civili e soprattutto i diritti delle coppie omosessuali. Sembra che tutt'ad un tratto ci siamo finalmente resi conto di loro. Prima era già difficile parlare di coppie di fatto in Italia, ed ora, addirittura, si valuta l'opportunità di istituire i matrimoni per persone dello stesso sesso. Così, come se nulla fosse, senza lo sdegno incontenibile del Giovanardi di turno. Mi sono dunque chiesto cosa sia mai successo.

Tra le notizie degli ultimi giorni in riguardo vediamo la rivolta dei sindaci sulle trascrizioni nelle anagrafi dei matrimoni tra persone dello stesso; il dibattito sul ddl contro l'omofobia e transfobia ad opera di Scalfarotto, sottosegretario per le riforme costituzionali; la presentazione della proposta di legge Cirinnà sui diritti civili; e, udite udite, la riunione del sinodo sulla famiglia che inizialmente (ma solo inizialmente) aveva mostrato comprensione alle coppie omosessuali che garantiscono l'un l'altro «mutuo sostegno fino al sacrificio». L'apertura della Chiesa è poi stata molto più timida nella relazione finale e la precedente espressione infatti eliminata. Ma ciò rimane ancora una notizia. È stato un segnale non di poco conto, ed è stato questo che molto probabilmente ha rintuzzato il dibattito politico e soprattutto ha rincuorato e se vogliamo anche legittimato l'azione del governo in tal senso.

Perché, è inutile negarcelo, il Vaticano ha ancora un'ampia influenza nella politica italiana, e soprattutto conta molto per Renzi, molto astuto a non farsi sfuggire l'appoggio dei poteri che contano e a seguire gli umori di una società italiana che, nonostante si dimostri disponibile ad innovazioni in tema di diritti civili, è ancora fondamentalmente e orgogliosamente cristiana. Il merito è senz'altro di papa Francesco, portatore di una visione generalmente progressista all'interno della Chiesa ma non solo: il NY Times riporta che quando era ancora cardinale in Argentina, Bergoglio aveva assunto posizioni alquanto «pragmatiche» proprio in merito alle unioni gay.

L'ingombrante presenza del Vaticano è stata quindi per l'Italia un elemento decisivo a difesa del matrimonio tradizionale tra uomo e donna contemplato dalla fede cristiana e della condanna ad altri tipi di unione tra persone. Una specie di freno all'evoluzione dei diritti così come avviene in qualsiasi altra parte del mondo dove la religione invade consistentemente il campo della politica. Con il risultato che l'Italia, pur essendo un Paese europeo ed occidentale rimane piuttosto arretrato in tema di diritti civili. Volendo rimanere in tema di unioni omosessuali, nel cosiddetto mondo occidentale, infatti, praticamente tutti i Paesi prevedono qualche forma di tutela o riconoscimento in tal senso: è così negli USA (dove molti Stati prevedono il matrimonio), in Canada, in Australia, Francia, Gran Bretagna, ma anche nelle cattolicissime Argentina, Brasile e Spagna. L'Italia, invece, risulta essere   sullo stesso piano di Bielorussia, Turchia e Mongolia, che perlomeno non perseguitano o puniscono gli omosessuali, ma comunque li confinano nell'oblio dei diritti.


È sempre e subito facile individuare dove l'Italia è un Paese arretrato. Lo è nella ricerca e nell'innovazione, nelle infrastrutture, nella lotta all'evasione e al malaffare (nel post precedente abbiamo invece visto come non lo sia nelle tutele dei lavoratori), ma forse non ci viene in mente che lo è anche nei diritti civili, e specialmente nei diritti delle coppie. È importante avere ben presente questo se vogliamo che il nostro Paese si voglia di nuovo mettere al passo con il resto d'Europa, è importante sapere che l'Italia deve ancora fare un grande balzo in avanti nei diritti civili.


giovedì 2 ottobre 2014

Articolo 18, ovvero come siamo bravi a farci del male

Immagine: formiche.net
Un altro autunno è cominciato e come vuole la tradizione ogni autunno deve essere, politicamente parlando, «caldo». E cosa ci può essere di meglio per infiammare gli animi se non una bella polemica intorno l'articolo 18? Null'altro. L'articolo 18 sembra essere da diversi anni a questa parte il miglior modo per far salire la colonnina della temperatura. Difeso a spada tratta dalla sinistra e dai sindacati dagli attacchi della destra e forse meno da quelli degli imprenditori, l'articolo 18 è ormai divenuto il simbolo per eccellenza per rinvigorire i cari scontri ideologici tra destra e sinistra di cui forse stiamo perdendo un po' l'abitudine.

A questo punto, cerchiamo di capire di cosa si tratta per la precisione, questa volta. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato quello che ha definito il «Jobs Act», ossia un proposta normativa per riformare il mercato del lavoro e, si spera, per creare occupazione. Tra i vari provvedimenti presentati, uno, quello più controverso, riguarda la modifica alle tutele dei lavoratori che si prevede diventino «crescenti», cioè ad aumentare a seconda dell'anzianità di servizio. Tra queste tutele però, non figurerà più quella cosiddetta «reale» e prevista dall'articolo 18: il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento con mancanza di giustificato motivo oggettivo (cioè per cause economiche). Il reintegro verrebbe sostituito quindi solo da un indennizzo al lavoratore. Apriti cielo. I sindacati si sono, giustamente, opposti, il partito di governo si è spaccato, e i talk show sono ormai in visibilio per la notizia.



È tutto sbagliato. L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ormai non esiste (quasi) più da due anni, esattamente da quando l'ex ministra Fornero ha introdotto la sua riforma che ha previsto, indovinate cosa, la possibilità del solo indennizzo al lavoratore in luogo del reintegro  per licenziamento dovuto a cause economiche. Cioè la stessa cosa di cui si discute tanto ora. La tutela reale della riforma Fornero viene mantenuta solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Chi voleva opporsi e scatenare il putiferio contro la riduzione dei diritti dei lavoratori avrebbe dovuto farlo due anni fa, non ora.
Ecco il quadro. Parlare di articolo 18 sembra ora irrimediabilmente inutile, a meno che non si voglia farlo per conservare quelle poche tutele che ancora restano, per i già citati licenziamenti discriminatori e disciplinari, tutele che potrebbero pericolosamente anch'esse essere smantellate. Ma anche quest'ultima strenua difesa potrebbe perdere di significato visto che, soprattutto per il licenziamento discriminatorio, è difficilissimo fornire delle prove, e quindi questa fattispecie veniva coperta dal reintegro previsto dal licenziamento economico. Ora che questa non c'è più, sarà più facile licenziare in qualsiasi caso.

La definitiva eliminazione della tutela reale prevista dall'articolo 18 indica quanto noi italiani siamo bravi a farci del male. Nell'unico campo normativo in cui l'Italia era all'avanguardia, la legislazione a tutela del lavoratori, siamo retrocessi. Nessun altro Paese europeo prevedeva una normativa così avanzata. In Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, c'è quasi praticamente soltanto l'indennizzo al lavoratore per licenziamento senza giustificato motivo. Diciamocelo, c'era un'unica intuizione, semplice e geniale, da fare: sanzionare i datori di lavoro che licenziano senza un giustificato motivo, e noi ci siamo arrivati. Nel 1970. E ora vogliamo tornare indietro. Una normale legge che va a punire le ingiustizie. Nessun diritto di licenziare viene tolto al datore di lavoro perché se ci sono validi motivi l'imprenditore potrà sempre e comunque licenziare, e ci mancherebbe altro. 

Ma ciò che è davvero curioso in tutta la vicenda è il ruolo che dovrebbe avere questo articolo 18 nella ripresa dell'economia e nella creazione di occupazione. Infatti, se il problema dell'Italia è la disoccupazione, perché fare una legge che facilita i licenziamenti? E non una che incoraggia le assunzioni? Stranezze. D'altronde, nessuno ormai, neppure gli imprenditori, credono davvero che l'articolo 18 sia un freno per la crescita economica del nostro Paese. Periodi di crescita ne abbiamo avuti tanti, nei vari decenni '80, '90, e 2000, e l'articolo 18 già c'era. Siamo la seconda manifattura d'Europa anche con l'articolo 18. 
Sembra chiaro, ormai, che la disputa sull'articolo 18 sia solo ed esclusivamente una contrapposizione politica, finalizzata all'eliminazione dell'avversario, e cioè detto chiaro e tondo Renzi che vuole sbarazzarsi definitivamente della componente più «tradizionalista» del suo partito. Chi vede la volontà del governo come quella finalmente di ridare dinamicità al mercato del lavoro e puntare a investimenti esteri che non aspettano altro che l'articolo 18 venga abolito per entrare nel nostro Paese, potrebbe sbagliarsi di grosso. Se fosse questo il fine, sarebbe un'ipotesi tanto migliore. Renzi, in realtà, così facendo vuole definitivamente concludere una epoca politica, quella della sinistra che va a braccetto con i sindacati per aprirne una nuova, la sua.