giovedì 23 ottobre 2014

Il grande balzo in avanti dei diritti civili

Non solo Jobs Act e 80 euro. L'attuale dibattito politico e il percorso delle riforme del presidente del Consiglio Matteo Renzi stanno prendendo strade diverse da quelle che percorrono gli insidiosi tracciati di economia e lavoro, riforme inevitabili e necessarie vista la grave situazione in cui ci ritroviamo. Quasi inaspettatamente, però, il governo ha anche deciso di premere l'acceleratore su altri temi e in altri ambiti, altrettanto spinosi e ostici: i diritti civili e soprattutto i diritti delle coppie omosessuali. Sembra che tutt'ad un tratto ci siamo finalmente resi conto di loro. Prima era già difficile parlare di coppie di fatto in Italia, ed ora, addirittura, si valuta l'opportunità di istituire i matrimoni per persone dello stesso sesso. Così, come se nulla fosse, senza lo sdegno incontenibile del Giovanardi di turno. Mi sono dunque chiesto cosa sia mai successo.

Tra le notizie degli ultimi giorni in riguardo vediamo la rivolta dei sindaci sulle trascrizioni nelle anagrafi dei matrimoni tra persone dello stesso; il dibattito sul ddl contro l'omofobia e transfobia ad opera di Scalfarotto, sottosegretario per le riforme costituzionali; la presentazione della proposta di legge Cirinnà sui diritti civili; e, udite udite, la riunione del sinodo sulla famiglia che inizialmente (ma solo inizialmente) aveva mostrato comprensione alle coppie omosessuali che garantiscono l'un l'altro «mutuo sostegno fino al sacrificio». L'apertura della Chiesa è poi stata molto più timida nella relazione finale e la precedente espressione infatti eliminata. Ma ciò rimane ancora una notizia. È stato un segnale non di poco conto, ed è stato questo che molto probabilmente ha rintuzzato il dibattito politico e soprattutto ha rincuorato e se vogliamo anche legittimato l'azione del governo in tal senso.

Perché, è inutile negarcelo, il Vaticano ha ancora un'ampia influenza nella politica italiana, e soprattutto conta molto per Renzi, molto astuto a non farsi sfuggire l'appoggio dei poteri che contano e a seguire gli umori di una società italiana che, nonostante si dimostri disponibile ad innovazioni in tema di diritti civili, è ancora fondamentalmente e orgogliosamente cristiana. Il merito è senz'altro di papa Francesco, portatore di una visione generalmente progressista all'interno della Chiesa ma non solo: il NY Times riporta che quando era ancora cardinale in Argentina, Bergoglio aveva assunto posizioni alquanto «pragmatiche» proprio in merito alle unioni gay.

L'ingombrante presenza del Vaticano è stata quindi per l'Italia un elemento decisivo a difesa del matrimonio tradizionale tra uomo e donna contemplato dalla fede cristiana e della condanna ad altri tipi di unione tra persone. Una specie di freno all'evoluzione dei diritti così come avviene in qualsiasi altra parte del mondo dove la religione invade consistentemente il campo della politica. Con il risultato che l'Italia, pur essendo un Paese europeo ed occidentale rimane piuttosto arretrato in tema di diritti civili. Volendo rimanere in tema di unioni omosessuali, nel cosiddetto mondo occidentale, infatti, praticamente tutti i Paesi prevedono qualche forma di tutela o riconoscimento in tal senso: è così negli USA (dove molti Stati prevedono il matrimonio), in Canada, in Australia, Francia, Gran Bretagna, ma anche nelle cattolicissime Argentina, Brasile e Spagna. L'Italia, invece, risulta essere   sullo stesso piano di Bielorussia, Turchia e Mongolia, che perlomeno non perseguitano o puniscono gli omosessuali, ma comunque li confinano nell'oblio dei diritti.


È sempre e subito facile individuare dove l'Italia è un Paese arretrato. Lo è nella ricerca e nell'innovazione, nelle infrastrutture, nella lotta all'evasione e al malaffare (nel post precedente abbiamo invece visto come non lo sia nelle tutele dei lavoratori), ma forse non ci viene in mente che lo è anche nei diritti civili, e specialmente nei diritti delle coppie. È importante avere ben presente questo se vogliamo che il nostro Paese si voglia di nuovo mettere al passo con il resto d'Europa, è importante sapere che l'Italia deve ancora fare un grande balzo in avanti nei diritti civili.


giovedì 2 ottobre 2014

Articolo 18, ovvero come siamo bravi a farci del male

Immagine: formiche.net
Un altro autunno è cominciato e come vuole la tradizione ogni autunno deve essere, politicamente parlando, «caldo». E cosa ci può essere di meglio per infiammare gli animi se non una bella polemica intorno l'articolo 18? Null'altro. L'articolo 18 sembra essere da diversi anni a questa parte il miglior modo per far salire la colonnina della temperatura. Difeso a spada tratta dalla sinistra e dai sindacati dagli attacchi della destra e forse meno da quelli degli imprenditori, l'articolo 18 è ormai divenuto il simbolo per eccellenza per rinvigorire i cari scontri ideologici tra destra e sinistra di cui forse stiamo perdendo un po' l'abitudine.

A questo punto, cerchiamo di capire di cosa si tratta per la precisione, questa volta. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato quello che ha definito il «Jobs Act», ossia un proposta normativa per riformare il mercato del lavoro e, si spera, per creare occupazione. Tra i vari provvedimenti presentati, uno, quello più controverso, riguarda la modifica alle tutele dei lavoratori che si prevede diventino «crescenti», cioè ad aumentare a seconda dell'anzianità di servizio. Tra queste tutele però, non figurerà più quella cosiddetta «reale» e prevista dall'articolo 18: il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento con mancanza di giustificato motivo oggettivo (cioè per cause economiche). Il reintegro verrebbe sostituito quindi solo da un indennizzo al lavoratore. Apriti cielo. I sindacati si sono, giustamente, opposti, il partito di governo si è spaccato, e i talk show sono ormai in visibilio per la notizia.



È tutto sbagliato. L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ormai non esiste (quasi) più da due anni, esattamente da quando l'ex ministra Fornero ha introdotto la sua riforma che ha previsto, indovinate cosa, la possibilità del solo indennizzo al lavoratore in luogo del reintegro  per licenziamento dovuto a cause economiche. Cioè la stessa cosa di cui si discute tanto ora. La tutela reale della riforma Fornero viene mantenuta solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Chi voleva opporsi e scatenare il putiferio contro la riduzione dei diritti dei lavoratori avrebbe dovuto farlo due anni fa, non ora.
Ecco il quadro. Parlare di articolo 18 sembra ora irrimediabilmente inutile, a meno che non si voglia farlo per conservare quelle poche tutele che ancora restano, per i già citati licenziamenti discriminatori e disciplinari, tutele che potrebbero pericolosamente anch'esse essere smantellate. Ma anche quest'ultima strenua difesa potrebbe perdere di significato visto che, soprattutto per il licenziamento discriminatorio, è difficilissimo fornire delle prove, e quindi questa fattispecie veniva coperta dal reintegro previsto dal licenziamento economico. Ora che questa non c'è più, sarà più facile licenziare in qualsiasi caso.

La definitiva eliminazione della tutela reale prevista dall'articolo 18 indica quanto noi italiani siamo bravi a farci del male. Nell'unico campo normativo in cui l'Italia era all'avanguardia, la legislazione a tutela del lavoratori, siamo retrocessi. Nessun altro Paese europeo prevedeva una normativa così avanzata. In Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, c'è quasi praticamente soltanto l'indennizzo al lavoratore per licenziamento senza giustificato motivo. Diciamocelo, c'era un'unica intuizione, semplice e geniale, da fare: sanzionare i datori di lavoro che licenziano senza un giustificato motivo, e noi ci siamo arrivati. Nel 1970. E ora vogliamo tornare indietro. Una normale legge che va a punire le ingiustizie. Nessun diritto di licenziare viene tolto al datore di lavoro perché se ci sono validi motivi l'imprenditore potrà sempre e comunque licenziare, e ci mancherebbe altro. 

Ma ciò che è davvero curioso in tutta la vicenda è il ruolo che dovrebbe avere questo articolo 18 nella ripresa dell'economia e nella creazione di occupazione. Infatti, se il problema dell'Italia è la disoccupazione, perché fare una legge che facilita i licenziamenti? E non una che incoraggia le assunzioni? Stranezze. D'altronde, nessuno ormai, neppure gli imprenditori, credono davvero che l'articolo 18 sia un freno per la crescita economica del nostro Paese. Periodi di crescita ne abbiamo avuti tanti, nei vari decenni '80, '90, e 2000, e l'articolo 18 già c'era. Siamo la seconda manifattura d'Europa anche con l'articolo 18. 
Sembra chiaro, ormai, che la disputa sull'articolo 18 sia solo ed esclusivamente una contrapposizione politica, finalizzata all'eliminazione dell'avversario, e cioè detto chiaro e tondo Renzi che vuole sbarazzarsi definitivamente della componente più «tradizionalista» del suo partito. Chi vede la volontà del governo come quella finalmente di ridare dinamicità al mercato del lavoro e puntare a investimenti esteri che non aspettano altro che l'articolo 18 venga abolito per entrare nel nostro Paese, potrebbe sbagliarsi di grosso. Se fosse questo il fine, sarebbe un'ipotesi tanto migliore. Renzi, in realtà, così facendo vuole definitivamente concludere una epoca politica, quella della sinistra che va a braccetto con i sindacati per aprirne una nuova, la sua.